Una volta, tornando a casa, trovai una mia ex fidanzata che circumnavigava il mio isolato in macchina, con i fari spenti.
Era una notte fredda, un po’ di nebbia, potrebbe essere stato un giorno a caso, sparso tra ottobre e maggio, che le notti a Cremona sono tutte così, diocristo.
Arrivai con la mia amata bicicletta rossa, scassata e rumorosa e la vidi, a cinquanta metri dal mio ingresso.
Procedeva quasi immobile. Riconobbi la macchina, ma non vidi il volto.
Solo la macchina, che non faceva rumore, un predatore in attesa dell’attacco. Mi venne in mente Lo Squalo, il film. Pensai alla musica. E quella macchina che girava lenta, buia, nella nebbia, mi faceva seriamente paura. Lanciai la bicicletta, corsi in casa, quattro gradini per volta. Infilai la chiave nella toppa. Aprii, il cuore che esplode. Non accesi la luce per non destare sospetti.
Il nemico ci osserva!
Scostai la tenda e guardai giù.
Niente. Poi da lontano… eccola!
La macchina-squalo fece ancora un giro, ancora senza fari, senza rumore. Oddio si ferma.
Apre una portiera! Aiutatemi, dannazione, aiutatemi!
Caddero fazzolettini per terra. Accese i fari e poi se ne andò.
Lanciare i fazzolettini dalla macchina era una sua prerogativa di vita, mai capito perché. Come non ho mai capito cosa volesse fare.
Che mi volesse investire? Che mi volesse sparare? Che mi volesse rapire? Che mi volesse parlare? Non lo so.
Però è stato strano. Cioè, parliamoci chiaro, ‘sta cosa del pedinare a me fa paura.
Che poi scopro che è una pratica abbastanza diffusa.
Tante persone che conosco si sono messe a controllare una persona. Io no. Perché mi sfugge il senso preciso della cosa.
Che non porta a niente se non all’evidenza di un’assenza o di una presenza.
Però chissà cosa si prova a stare lì, in macchina, nell’attesa. Dev’essere straziante.
Chissà a cosa si pensa.
Immagino mariti e mogli traditi che pedinano mogli e mariti fedifraghi. Una evidenza che ti devasta, un nichilismo necessario, quasi voyeuristico di un dramma annunciato.
Che lo sai già se il tuo compagno ti tradisce, no?
Il punto è che qui si esagera. È l’estensione totale della Sindrome dell’Ossezia. Non diventa più una questione di giochi di potere, ma qualcosa di più subdolo.
Che nemmeno l’evidenza basta più per sedare i dubbi. È cercare l’inesistente. È modificare il reale secondo la propria ossessione. Vuoi leggere tra le righe? Ma non esiste il settimo piano e mezzo. Non puoi entrare nella mia testa e sperare di vedere con i miei occhi. Non sono John Malkovich.
Che purtroppo le cose non vanno sempre come vogliamo.
È una sorta di sindrome del controllo che si declina tentando di cambiare lo stato delle cose. Sostanzialmente accade quando una situazione non va come vorremmo. Si perde attrito con la realtà, rimane un’ossessione.
Che sia una gelosia. Che sia un’invidia. Il sapere tutto di una persona fa in modo che tu riesca ad avere tutte le variabili sotto un ipotetico, irreale controllo. Ogni sua mossa sarà messa sotto setaccio, per cercare delle evidenze inesistenti. In evidente assenza di evidenze inesistenti, si procede con la produzione di bugie, con argini umani, mine antiuomo e carabine di precisione. Non basta sapere cosa provo o quello che penso. No.
Fingere l’amore o l’interesse, beh, io penso che sia francamente impossibile. A meno che tu sia un pazzo vero, ma chi te lo fa fare di fingere l’amore? Cosa vuoi sapere di più, se ogni minuto ti racconto cosa sono, come sono, come vivo, cosa voglio, come lo voglio.
Non riesco a capire cosa vuoi sapere di più. Sono convinto che l’ammissione sia uno slancio meraviglioso. C’è qualcuno che rimane statico per una vita. C’è invece chi sa lanciarsi. Non è semplice, ci vuole coraggio, ma deve succedere.
Ammettere fa dritti i pensieri.
Dire ti amo, seduto ad un tavolo di una cucina, in un primo novembre qualunque, di fronte a una persona sinteticamente immobile, beh, è difficile, ma distende il garbuglio. Ti amo. BUM. Si piange, si ride, si sta, non si sta e tant’è.
C’è qualcosa da modificare? È possibile farlo? No. Linea retta.
Che dico, cosa si può pretendere di più, se non una linea retta?
E invece qualcuno azzarda le curve.
Tenta di tendere con tensioni tentacolari e territoriali. Sono barricate attorno alla libertà.
E l’unico effetto reale che comportano è stato d’ansia, stato d’angoscia, stato di vergogna, sta testa di cazzo.
Sono adulto e tutto sommato dotato di un cervello.
Odio quando qualcuno mi sottovaluta e mi tratta da idiota. Purtroppo quello che non sanno con precisione è che a certi fascismi non c’è perdono. Non ci sarà mai.
Che se trovo sotto casa ancora qualcuno che mi pedina, magari glielo chiedo cosa sta facendo.
Ma no, ma no. Mi sa che scappo di nuovo.
Scopro che quando penso alla neve penso al silenzio.
Non penso al colore, alla consistenza o al sapore. Penso al fatto che quando c’è la neve, non c’è rumore.
Cioè, l’elemento base della vita, solidificandosi, ribalta diametralmente una sua fondamentale qualità: banalmente vorrei farvi notare che la gamma delle manifestazioni atmosferiche della pioggia è talmente vasta da lasciare senza fiato. E che la neve non è un temporale.
E sì, sono laureato, ve ne siete accorti.
Che la pioggia si fa sentire. Eccome se si fa sentire.
Cieli neri e tumultuosi, scrosci con lampi, tuoni e saette, alberi spaccati o divelti, grandine, fulmini globulari, fiumi in piena, disastri ambientali, fogne che trasudano di defecazioni urbane, diluvio universale, arca di Noè, Mosè e fornitura di ombrelli agli angoli delle strade appena scendono due gocce (ma come fanno?). Tanto per dire, l’acqua è in grado di fare un cazzo di casino.
La neve no.
Oddio, non sul casino, sia chiaro.
Prima l’aria diventa elettrica. Il cielo perde colore.
E poi arriva. Silenziosa la neve e la città pure. Diminuizione progressiva dei decibel.
Non so se è perché la gente si terrorizza subito e si chiude in casa o se perché effettivamente la neve ha delle proprietà fonoassorbenti. Però ti affacci alla finestra e un po’ sei contento.
Poi magari ti rendi conto che ti scombinerà un po’ i piani della giornata, devi spostare la macchina, mettere le catene, magari. L’altro giorno ci ho messo sei ore per tornare da Firenze e le madonne che non ho tirato sono proprio poche.
Però se ne viene giù molta è una festa. Che si chiudono le scuole e non si va a lavorare.
Ci si veste tutti un po’ a cazzo di cane, con i mammuth ai piedi (si lo so, si chiamano moon boot, ma mi fa più ridere mammuth, ok?), dicevo, prima che mi interrompeste, che si gira con i mammuth ai piedi e ci sono un sacco di attività di gruppo divertenti.
Tipo il lancio della palla di neve. Tipo la fantina, che è quando prendi uno e lo cacci per terra e lo riempi di neve.
Tipo fare i disegni nella neve fresca con la pipì (ma solo per i maschietti monelli). O lo slittino dal tetto della palestra Villetta dietro casa mia. O lo snowboard sugli argini del Po. In generale però il lancio della palla di neve è il divertimento più diffuso. Insieme alla fantina, chiaro. E anche il trascinamento altrui non è male.
Mi ricordo che il primo giorno che allo Chocolat hanno messo la Carlo V, la birra belga doppio malto da un milione di gradi, fuori c’era un casino di neve. E giravo con i mammuth. Solo che poi, per colpa della Carlo V, mi servivano i mammuth anche alle mani che a stare in piedi era un’impresa.
E anche in quell’occasione la neve ha fatto in modo di attutire i rumori. E gli urti. E le parolacce che mi sono preso (nota a margine: da quel giorno non bevo più Carlo V).
Dicevamo. Che poi si ferma, magari, la neve. Poi sta lì ed è bella un po’. Poi diventa marrone e poltiglia. E poi se ne va.
E tornano i rumori.
E sembra sempre che stia piovendo, per il rumore delle ruote nelle pozzanghere, che durano mille giorni all’anno, con tutta la neve che si deve sciogliere. E le strade rimangono disastrate, che i gatti delle nevi fanno sempre dei casini. E il sale sprecato.
Tutto pieno di cicatrici. È che mentre lo pensavo, beh, è facile traslare il concetto e renderlo antropomorfo.
Che alcune persone fanno così.
Arrivano e non è che lo annunciano.
Arrivano. Silenziose.
Ti affacci alla finestra e dici “cazzo, mamma, è arrivata!” e sei contento un po’, e ti vesti a cazzo di cane, ti infili delle calzature un po’ bizzarre e bevi la Carlo V e ridi come un matto. E stanno lì un po’.
E poi diventano marroni. E un giorno ti svegli e non ci sono più, solo ‘sto casino che è rimasto per strada che è la tua faccia. Ma proprio molto. E sembra davvero che siano passati mille spargisale e duemilioni di spazzaneve, con le pale unicinate e le bombe a mano.
Che se sento ancora uno che è contento che nevica, giuro, invece di fare a palle di neve, faccio a palle di merda.
Ho scoperto che se non dai da bere alle piante, non muoiono.
Stanno male un pochino, sì. Poi affondano le radici.
Cercano l’acqua dove possono e a volte la trovano, a volte devono spaccare il cemento, a volte sollevano le strade, scavano, scoprono una sacca di acqua e se la fanno bastare. Altre volte no.
E quando non ce la fanno, ho scoperto che non muoiono ancora.
Rimangono lì. Sembrano ancora vive, ma in realtà si stanno svuotando. Piano piano. Non te ne accorgi. Come quando viene buio nella stanza, non te ne accorgi mentre succede. Le foglie sì, quelle sì, crollano, ingialliscono.
Ma è solo la parte più esterna delle piante. Poi a un certo punto è buio. E bisogna accendere la luce. Ho scoperto che ci sono alcune piante che non lo danno a vedere se stanno male, se manca loro l’acqua per vivere.
Si lasciano morire. Ho scoperto anche che dopo un po’ effettivamente muoiono. E puoi arrivare con un carico di millemila litri di acqua buona, la più buona che c’è, ma l’unica cosa che rimane da fare è tagliare.
Prima i rami esterni, quelli più piccoli, quelli più belli, quelli che portano i fiori e le foglie.
Poi se è il caso, si tagliano quelli più grandi.
A volte rimane un moncherino appena di una pianta che prima era bella e enorme e poi, per qualche motivo, non le si è dato da bere e quindi è morta. Ma ci vogliono mesi, a volte anni.
Però poi è proprio un peccato.
Perché non è più la stessa pianta.
A volte poi bisogna proprio prendere il badile, tirarla fuori dalla terra, e buttarla via. Io vi posso assicurare di aver visto alcune piante di notte chinare i rami, tirarsi su le radici come fossero una gonna e andarsene via, in punta di piedi.
Un po’ scocciate, anche. Non fanno fatica perché la terra secca scivola via.
Si danno una ripulita e se ne vanno. Lo fanno quando hanno ancora un po’ di senno, prima delle varie mutilazioni. Le foglie comunque le hanno perse, i fiori praticamente subito. Ma almeno sono ancora tutte intere.
Invece alcune piante stanno lì.
Convinte che lì e solo lì si possa avere un po’ di acqua buona.
Non lo sanno che il mondo è rotondo e ci sono tantissimi litri di acqua da bere, gratis anche. Stanno lì e si lasciano morire. Convinte di dare fastidio, non si lamentano neppure. Che magari gli altri si accorgono che hanno dei bisogni.
Stanno lì e fanno il sorriso. “Sto bene io, sì.”
Non credeteci.
Le piante sono fatte così.
Che poi, intendiamoci, non hanno tante altre richieste. Anzi, sono più i privilegi che portano. Fanno ombra, cambiano l’aria, occasionalmente portano un buon profumo, ci si può appoggiare se si è stanchi, per leggere un libro, ed è bello averla attorno.
È che ci si dimentica di dare da bere. O si preferisce canalizzare l’acqua da altre parti.
Perché non tutte le piante hanno bisogno di acqua nella stessa maniera, ho scoperto. Alcune continuano a chiederne. Altre sembrano perennemente assetate. Solo che un po’ di acqua serve anche a noi, da bere, se no finiremmo disidratati, come loro.
L’eucalipto, per dire, è una pianta che necessita di tipo 90 litri di acqua al giorno.
Lo piantano per sistemare le paludi. Solo che poi continua a bere. E a volte prosciuga la falda acquifera. Pazzesco, eh. È una pianta molto bella, ed è enorme e le foglie fanno un bel rumore. Però bisogna saperle certe cose. Non è che puoi piantare un eucalipto nel giardino di casa tua.
Ho scoperto anche che le rose producono una specie di enzima che va nella terra. E se la rosa muore o viene spostata da un’altra parte, nella stessa terra non puoi piantare un’altra rosa. Pianti una rosa stupenda nella stessa terra e non vivrà mai. Sarà destinata a morire in tempi brevi. Quindi attenti.
E per il balcone compri delle piante bellissime e tutti i giorni le curi e dai loro da bere l’acqua insieme al sangue di bue e stai attento ai parassiti e lucidi le foglie. E intanto la pianta grassa che hai vicino al computer, quella piantina che non cresce molto, ma è lì, compagna da cento anni, testimone della tua vita, beh, te ne dimentichi.
E dopo mille mesi dici “accidenti, devo darle da bere”, e la terra è secca da far schifo, e tocchi la pianta grassa e si disfa tra le mani.
Andata.
Apri il sacco nero e ce la ficchi dentro e tanti saluti.
Coglione.
L’acqua che dovrei destinare ad alcune piante mi sembra di canalizzarla in altri discutibili obbiettivi.
Che ‘sti canali poi sono ormai dei labirinti intricati e a volte spero solo che l’acqua arrivi, ma non so bene se lo farà.
Io apro il rubinetto. Chi lo sa, poi. Sono lontane, alcune piante. O meglio. Ci sono piante che stanno lì da una vita e diventano un pezzetto d’arredo forse, dopo anni, e non mi rendo conto che anche loro hanno delle necessità.
A volte alzano i tacchi e, in punta di piedi, senza disturbare se ne vanno. Me ne accorgo tardi, quando magari sono in Spagna già da mesi e, tornando da Milano, con la pioggia che fa da sottofondo newagedelcazzo, vorrei dire loro: “ehi, vuoi un po’ d’acqua, ne ho che m’avanza! Che oggi l’ho data al lavoro, l’ho data ai sogni e l’ho data anche gratis a chi non la voleva.”
“Sono a posto così”, sono sicuro mi direbbero.
Non vogliono disturbare. Ma non bisogna credere alle piante. Dissimulano continuamente.
La verità è che hanno già preso il badile e se ne sono già andate a bere l’acqua altrove.
Giusto così.
E quindi ho un po’ di buchi nel giardino. Coglione.
Ho buchi nel giardino e sono pure un po’ assetato io, che l’acqua che ho è limitata e a volte non è neanche tanto buona.
E allora bisogna scegliere bene, bisogna scegliere meglio le piante che si piantano nel giardino. Infrastrutture tunnel e acquedotti che dissipano la pressione.
Ma che cristo. Canali su canali, succede che l’acqua finisce persa in una distesa di sabbia con una palma di plastica buona solo a sciogliersi al primo caldo.
Che se poi incontro quel testa di cazzo che quando passa mi lancia i mozziconi delle sigarette nel prato inglese, piatto e senza verde, giuro che lo meno.
Vai a teatro.
Sei in coda.
Davanti, un uomo, pelato ma con i capelli lunghi, con una giacca di velluto nera che puzza di naftalina e un dolcevita nero che sa di Valle degli Orti.
Dietro, una coppia annoiata di cinquantenni con bambino, biglietti omaggio di qualche banca e/o fondazione e/o associazione culturale.
Davanti, l’uomo gesticola animatamente con la compagna, capelli lunghi, crespi, grigi, unti di olio motore.
La coppia e’ cosi’ apatica che si muove meccanicamente, occhi vuoti, verso la cassa. Incurante dell’ingombro della tua persona.
Ogni movimento dell’uomo pelato e’ una tempesta di neve. Etti di forfora che crollano sulle sue spalle, nell’aria, microparticelle di pelle morta che tentano di insinuarsi nella tua bocca, nel naso, negli occhi, nei pori, aliene otturazioni epidermiche.
La coppia avanza, imponente. Il bambino gioca, ti urta. La donna dai capelli crespi ride a crepapelle ed e’ in amore con il pelato, devono essere un’ufficiosa coppia di amici dalla passione comune. Lei non perde il contatto visivo con il pelato, e si accarezza ossessivamente i capelli, spostando le ciocche unte da sopra l’orecchio, che cadono drammaticamente con tonfo sonoro.
La coppia avanza, ti spingono, ti giri per reclamare, il bambino gioca, ti urta e tu finisci contro la schiena imbiancata dell’uomo pelato. Polvere di stelle, come quando giri le bolle di vetro con la neve dentro, che vortica attorno all’ignaro e immobile pupazzo di neve al centro della scena. L’uomo pelato si gira, sorride, denti marroni e grigi, chiedi scusa, lui dice si figuri e svieni istantaneamente nel fango del suo alito.
La donna crespa pratica una respirazione bocca a bocca che ti da il colpo di grazia definitivo.
Ti risvegli nel tuo posto in platea.
Tutto e’ perfetto, mancano cinque minuti all’inizio. Le maschere aiutano gli ultimi a trovare sistemazione, sottile brusio di sottofondo, conciliante.
Ti rifai, riassapori la vita. Le luci calano. Il brusio si disfa. Inforchi gli occhiali per goderti la pièce da tanto agognata.
E nell’istante di buio in cui sbatti le palpebre e infili le lenti, si materializzano nell’ordine:
1. un giocatore di pallacanestro, davanti;
2. un universitario scostante, alla tua destra;
3. un affabile anziano con spessi occhiali, alla tua sinistra;
4. una coppia sui trenta, dietro.
Nero in sala.
Silenzio.
Sta per partire l’overture.
Inizio.
Sincronicamente;
– il ginocchio dell’universitario scostante parte con un movimento periodico, sussultorio, nevrotico, che induce il tuo sedile al massaggio lombare;
– il cellulare dell’anziano signore inizia a suonare, perso in qualche anfratto del pesante paletot adagiato sulle gambe;
– la coppia starnuta, prima lui, poi lei, bagnandoti la nuca;
– il giocatore di pallacanestro si issa per bene sul sedile, perche’ di fronte a lui si e’ seduto un pivot del Baracca Lugo, quella cazzo di squadra che non tollera.
Mentre la gambetta impazzita dell’universitario ti scuote, il simpatico vecchietto ti prende per un braccio e sottovoce ti urla “SI SPENGONO I TELEFONINI EH!”, ma e’ il suo, gli dici, “SILENZIO!” risponde e gli prendi il paletot a pied de poule, infili la mano nella tasca lui urla “AL LADRO!” prendi il telefonino, leggi sul display “Mamma”, pensi quanti cazzo di anni la madre di questo vecchio bastardo, sorridi di circostanza, stacchi la batteria, tutto torna in silenzio, il giocatore di basket si gira, dice sssshhh, i due dietro tossiscono l’inno inglese, l’universitario dice VAFFANCULO con l’alfabeto morse della gamba e in tutta la sala c’e’ un mormorio di disapprovazione.
Tu, cattivo.
Tu molto cattivo.
Due note ancora e dietro sussultano una scarica di tosse, lei apre la borsetta stando attenta a non fare rumore, ci infila le mani dentro e fruscio di carte e cartacce, probabilmente una colonia di brandelli di alluminio, di plastica, di plexiglass, di rame, biglie, sonagli, raganelle e nacchere, tutti all’unisono, perche’ lei vuole trovare un minchia di Benagol.
Lo trova dopo 157 secondi netti, di assordante e incessante tramestio manipolatorio, silenzio di attesa per ben tre secondi e proprio durante la prima battuta della sospirata pièce, lei pigia sul Benagol in un fragoroso SCLANC.
Starnuto e tosse.
COFF.
Benagol in bocca, cozza contro i denti.
CLENKCLENK.
Il simpatico nonno, sempre attento al tono di voce, “MA QUELLA E’ GIULIETTA?” e tu gli dici “ehm, no, questo e’ Beckett, sa?”, il cestista si irrita, si gira, ti prende per il bavero e dice “adesso basta” con una diplomazia paragonabile a quella di Ivan Drago.
L’universitario saltellante sbuffa la sua noia. Ci dovra’ scrivere una tesina su sta roba.
Estrae un iPhone e per il resto del tempo sara’ un gran pizzicare, pigiare, scorrere, scivolare, menare lo schermo estremamente piatto, estremamente luminoso.
Ti guardi attorno.
Sospiri.
Per i rimanenti 120 minuti sara’ una battaglia con la pazienza.
Nell’inferno del pubblico pagante.
E poi ti accorgi. Una brezza leggera. Giri il capo. L’ineluttabile e’ qui.
Che il pubblico di appena due posti piu’ in la’, tutt’attorno, a 360 gradi, e’ costituito da filosofi, critici letterari, bellissime donne single in attesa di un incontro, rockstar dal cuore d’oro, gentili massoni, mecenati desiderosi di finanziare i tuoi sogni e una compagnia di sordomuti, perdipiu’ affetti da nanismo.
Insomma, le persone migliori sono sempre la’, due posti piu’ lontano.
Ma tu no. Tu ci sei in mezzo.
Nell’inferno epocale.
Il punto e’ che non solo il vicino ha il giardino piu’ verde, e’ che tu vivi in un monolocale nemmeno a norma.
Forse e’ il caso di chiamare Tecnocasa.
Vorrei scrivere qualcosa di intelligente e divertente.
E mi ritrovo imbizzarrito sul niente.
E allora faccio l’errore della vita: accendo la tv, doppia vi con l’accento sulla u. Povero me. E povero anche lui, sapete?
Il mio televisore, dico. E’ menomato, esso. Non ha piu’ la gran varieta’ di canali di cui si fregiava un tempo.
Infatti e’ stato colpito dal pericolosissimo morbo comune ai televisori del 2010, il temibile switch off, lo spegnimento delle frequenze analogiche in favore di quelle digitali. Praticamente sono rimasti solo i canali brutti e Rai3. E dei canali che non sono stati switchoffati uno su due non si vedono o si vedono a cubetti, che prima c’era la neve, adesso c’e’ tetris con gli occhi degli attori. Che mi chiedo perche’ diavolo poi si debba dire switch-off, quando un sinonimo qualunque, diciamo, che ne so, stronzata totale poteva andare molto meglio. Switch off. Meraviglioso. E’ che ormai l’anglofilia ha invaso anche il parlamento e legislazioni prototelevisive.
E i mass midia. Odio. Oddio, messi come siamo messi, forse e’ piu’ corretto dire che il parlamento e’ invaso anche da un mucchio di bagasce, trans, case regalate e quant’altro, altro che da parole straniere.
Ma forse e’ questione di lingue.
Perche’ si vede che e’ il trend. Urgh! In questi giorni c’e’ pure la rivolta del red carpet, che sembra un film di Wes Craven, dio mio, detto cosi’. Ve lo immaginate? La rivolta del Red carpet, una storia sanguinosa che parte dal basso!
Bah. Che poi, sta rivolta, tra parentesi, e’ portata avanti dagli italiani. Chissa’ perche’ non e’ la passerella, ma e’ il red carpet. Forse perche’ sono vip e non sono piu’ divi. Forse e’ colpa dello showbiz, chi lo sa. Il dizionario italiano si assottiglia, accidenti. Who cares?
Qualche mese fa ho lavorato in un’agenzia pubblicitaria e sono rimasto incastrato su una conversazione sui Pantone, i colori, avete presente? Si stava consumando un dramma: il pantone non mecciava con la stampa. Che detto cosi’ non si capisce un cazzo.
Ma dicevano “eh, non meccia, non vedi? non meccia!”. Non meccia. Oh, holy shit. Non match-a. Non corrisponde, non si abbina, non coincide, non combacia, non collima, diverge, contrasta, non concorda, non si accompagna. Ma non match-a e’ meglio, no? Stee cat si. Il tempo che si scaldi il tubo catodico (si, ebbene si, ho ancora un tubo catodico) e vedo che c’e’ Jonathan Coe dalla Dandini. Spiega che lui scrive in un brutto studio di Chelsea, dalle 9am alle 5pm.
Che cristo, un impiegato della scrittura, come previsto. Pero’ lui sta a Chelsea. E sticazzi, alla fine c’ha ragione lui. Che lui ha fatto il suo bisniss. Che dire business e’ gia’ troppo italiano. Bisniss e’ detto all’inglese.
E’ piu’ business del business, il bisiniss. E anche un po’ padrinesco, passatemi l’aggettivo.
E’ che mancano le parole e la voglia di usarle e di cercarle e di pesarle, e’ un tanto al chilo, e’ signora gliele incarto, e’ l’apice del televoto, della domanda multipla e della risposta chiusa, e’ la sindrome del milionario, dell’accendiamo, del tormentone di zelig, del comico di zelig, del comico di colorado, che e’ zelig di serie b, e’ la sindrome della carta di credito, quando tutto e’ un claim pubblicitario, quando tutto non ha prezzo, per il resto c’e’ mastercard, e’ la sindrome del buco catodico, dello zero emotivo, del calciomercato, del fantacalcio, del fantastigliardo, del lotto, enalotto, superotto e controfagotto, del grattaevinci da due, da cinque e intanto che ci siamo me lo dia anche da mille cazzo di euro, che magari win for life, delle macchinette, del bianco sporco, che piu’ sporco non si puo’, e rimane che siamo qui che non si puo’ parlare, non ci si puo’ capire, non si vuole ascoltare e che tutto ci si dimentica che tanto c’e’ il decoder sky che registra e rivediamo le nostre vite al rallentatore come matrix e tanto sono tutte uguali, giorno per giorno per giorno e intanto gerry si aspetta che gli rispondi e chiedo l’aiuto del pubblico e cerco su wikipedia e i pacchi su Raiuno e stop con le telefonate! Tu tu tu tu tu. L’utente selezionato non e’ al momento disponibile.
Che se incontro ancora qualcuno che a trentanni mi cita i Simpson, giuro che lo meno.
Il bassista.
Chi e’ costui?
Per un terzo della mia vita non capivo nemmeno che suono emettesse quello strano strumento in braccio a quel signore sempre defilato.
Basso e bassista. Anche il nome era poco incoraggiante.
Basso.
Ti riempie la bocca, con questa bi esplosiva e poi, ba ba ba boh?
A me piaceva la batteria. La cassa, il rullante, i piatti.
Ho conosciuto tutti i pezzi e ancora di piu’ mi piaceva: charleston, ride, crash, splash, tom, timpano e rototom.
La batteria e’ uno strumento chiaro, anche lessicalmente. Ogni parte e’ descritta precisamente da una parola onomatopeica che ne indirizza il suo preciso uso.
Non vi dico il godimento quando ho visto per la prima volta gli Iron Maiden, live @ Donnington del 1992, con i china alle spalle di Nicko Mc Brain, sbattuti e risuonati di schiena.
Che dire della chitarra? Chitarra uguale rock. Sono cresciuto con la distorsione di Paranoid dei Black Sabbath come modello di vita. Smoke on the water come santino nel portafoglio. Il riff di Smells Like Teen Spirits, beh, quella e’ stata la mia preghiera prima di dormire per anni. Il basso, invece. Ecco, sembra una frase tronca e sbagliata, ma non lo e’.
Il basso, invece. Invece.
Che suono fa il basso?, chiedevo a mio padre. Perche’ io non lo sento, gli dicevo. Massi’, e’ li’. Li’, dove? Io non capivo.
E il punto e’ che anche il bassista, invece.
Sta di solito dietro, in un angolino, con sta specie di chitarra oblunga, con meno corde, si muove poco e, beh, di certo e’ poco attraente.
Che poi, avete presente il Baffo dei Ricchi e Poveri? Ecco, lui secondo me era il Basso.
Che poi, con la mia zeppola, baffo e basso sono proprio limitrofi.
Mi ha sempre fatto un po’ paura il Baffo dei Ricchi e Poveri, a dirvi la verita’.
Che c’aveva quella voce li’… oddio, c’aveva la voce? Vedete, io non me lo ricordo!
Ma e’ con i Nirvana che mi sono reso conto della frustrazione del bassista.
Che e’ inevitabile, se alle spalle c’e’ Dave Grohl e davanti c’e’ Kurt Cobain.
Krist Novoselic ce la metteva tutta per essere uno del gruppo. E se anche musicalmente faceva il suo porco dovere, beh, sul palco, ahinoi, soffriva della sindrome del bassista.
Per tutto il concerto si dimenava, si scuoteva, si agitava a dire: guardate, guardate me, non guardate Kurt Cobain, io sono meglio di lui. Guardate me! E mi ricordo di aver visto un video in cui, durante Lithium, lanciava il basso in aria. Non si sa bene che cazzo gli abbia preso. Ma lo lancia in aria. E per una banale legge gravitazionale che in quel momento di gloria il nostro bassista, vittima della omonima sindrome, credeva di riuscire a superare, beh, gli arriva giustamentein piena faccia il basso.
Mi ricordo di essermi detto: Cristo Santo, che razza di un coglione.
E mi dicevo: ma perche’ non lo mandano via? Krist Novoselic.
Bah. Bahsso.
Poi ho imparato.
Il bassista spacca i culi.
Tiene in piedi la baracca e ci sono mille esempi di bassisti che hanno le palle e che, comunque, non soffrono di quella sindrome.
Ma il concetto rimane.
La sindrome del bassista e’ sempre e piu’ che mai valida.
E’ la sindrome della spalla che vuole prendere il posto della rock star, di chi si sente continuamente in ombra di chi ha quel genere di carisma ingombrante, raro, unico, in grado di catalizzare su di se’ l’attenzione di chiunque, solo per il fatto di essere li’, in quel posto. Io ne ho conosciute un po’, di rock star. E quando le incontri, beh, non rimane molto di te. E se ti viene lo schifo, l’invidia, finisci proprio male.
Ma la realta e’ che nella vita ci sono le rock star e ci sono le spalle e tutto sommato non c’e’ niente di male nell’essere una buona spalla, per una grande rock star.
Che a volte bisogna saper riconoscere la cosa.
Se no si rischia di ritrovarsi un cazzo di basso nella faccia, per tentare di superare la propria sindrome del bassista.
Ho sonno e la testa mi crolla all’indietro e se non sto attento attento mi viene il colpo della strega che poi non ho mai capito cosa c’entra la strega con il mal di collo, forse perche’ le streghe hanno mal di collo visto che volano tutto il giorno sulle scope e non e’ detto che magari abbiano la sciarpa per non prendere freddo, ma dico io, con tutto il lavoro da strega che fai, prenditi un bel foulardino di seta che ti ripara dall’aria, no?
Che un’altra cosa che mi fa venire il nervoso in questo periodo e’ che tutte le persone che conosco, no aspetta, non tutte, un bel po’ di persone che conosco sostengono di avere dei poteri paranormali.
Magari anche piccoli, delle banalita’, ma loro dicono di essere dei maghi o delle streghe, ancora meglio. I sogni premonitori mi danno il voltastomaco. No, no e no! Non c’e’ niente nei sogni premonitori. I sogni sono materia fecale del cervello che spurga l’eccesso visivo nella notte con arzigogoli e gorgoglii onirici incomprensibili. Volerci trovare qualcosa dentro e’ come cercare la soluzione a tutto con un numero. Magari il 23.
No, non si puo’, non e’ mica cosi’!
Non siete streghe e mi dispiace proprio. Anche perche’ mi pare che non abbiate nemmeno il tesserino da strega. O sbaglio? Su su, forza, il tesserino e la lascio libera, se no e’ da incriminare per utilizzo della pubblica questione della dinamica.