Decidere di emigrare

Ecco, ora vi dico una verità.
Il passo più grande è decidere davvero di emigrare.

Quante volte ho detto “ah quanto mi piacerebbe vivere a Londra”, senza effettivamente provarci? Quante volte ci sono andato, tre giorni per volta, come turista, per respirarvi l’aria e sognare, un giorno, di poter viverla quotidianamente? Anzi, stavo cercando una casa a Cremona, da comprare.
Però rompevo le palle un po’ a chiunque su quanto Londra fosse meravigliosa.
Durante una notte di neve a Cremona, scrissi una storia di fantasia: raccontavo una vita possibile a Londra, io, che facevo la pasta per me e i miei tre coinqnuilini, in una micro casa in un posto un po’ fuori, che neanche nei miei sogni mi potevo permettere una casa da solo.
E avevo scritto questa cosa che prendevo il bus e andavo a lavorare e poi tornavo a casa e pioveva e niente, insomma, facevo finta di vivere così, come se fosse vero, come se fosse possibile. Rilessi questa favoletta e decisi di cancellarla subito, perché mi sentivo troppo triste, troppo patetico e troppo incastrato.
Ma, nello stesso modo, non ho mai mandato alcun curriculum prima del Novembre 2011. È che sono successe un po’ di cose brutte nel 2011. Qualcuna a me, qualcuna a mia madre.

Una cosa che mi ha aiutato molto è stato compilare una piccola lista dei motivi per cui volevo emigrare.
Di liste ne ho fatte molte nella mia vita, ogni volta in cui avrei dovuto prendere una decisione importante. Mi fa bene scriverle, ma ancor di più mi fa bene rileggerle, nei momenti in cui mi dico “ma che diavolo ho fatto?”, momenti che arrivano puntuali e violenti.
Avere una lista mi ha sempre aiutato a tirare dritto, un conforto e una rassicurazione per non tornare indietro, anche quando le cose si fanno complicate.

Quindi, il mio primo passo è stato scegliere di emigrare, essere pronto a farlo, fare in modo di farlo.
Ogni ora della mia giornata era impegnata in quel progetto. Ogni lavoro, anche mal pagato, assumeva un nuovo valore.

Però forse adesso lo scrivo cosa è successo.
Perché forse ho bisogno anche io di dirlo, cosa è successo.

È successo che non sono stato bene.
Che dovevo andare a fare un lavoro a Firenze, con Fiorello.
Che avevo un ginocchio che mi faceva male, che si pensava fosse magari il menisco, chi lo sa.
La mattina sono andato in ospedale a farmi controllare e mi hanno aspirato il liquido dal ginocchio.
Due siringhe piene di schifo.
E hanno infilato il cortisone.
Faceva un male cane. Ma poi stavo meglio.
Ho guidato fino a Firenze, ho iniziato a lavorare.
Poi le cose sono andate fuori controllo e la febbre è tornata alta e l’altro ginocchio è impazzito pure lui.
Non riuscivo a camminare. Per la prima volta, non riuscivo a camminare. A 250km da casa.
Non è una cosa semplice, non camminare. Lo so che è una frase banale, ma non lo è viverlo.
Per la prima volta nella mia vita ho dovuto lasciare il lavoro.
La padrona del bed and breakfast in cui stavo non mi voleva lasciare andare a casa da solo.
Le ho raccontato una bugia e le ho detto che sotto c’erano i miei genitori.
Invece ho guidato con le ginocchia distrutte e la febbre alta e i sudori.
Non so neanche io come ho fatto ad arrivare a casa vivo, da Firenze.

Poi è successo che ho fatto dei controlli.
Che magari controlliamo meglio, in ospedale.
Che entro una mezza giornata per fare delle vitamine.
Che poi sono uscito un mese dopo.
Che non riuscivo neanche andare a pisciare.
Che non chiedevo aiuto, perché pisciare è una cosa base e dichiarare quell’incapacità è molto più difficile di quanto si possa pensare.
Non stavo in piedi e visto che non solo le gambe cedevano ma anche i polsi, anche appoggiarsi sull’asse del cesso per cagare era impossibile.
Infatti sono caduto due volte.
O tre.

Ci sono mattine di buio completo, le peggiori.
Le mattine erano i momenti più brutti delle ventiquattrore. Per mattine intendo quelle ore tra le cinque e le otto e mezza.
Alle cinque vengono le infermiere a provarti la febbre nell’orecchio.
Ti cambiano la flebo anche, se fai la flebo.
C’erano alcune infermiere che parlavano tra di loro urlando.
E ridevano. Credo sia giusto ridere, perché se vedi così tanta gente stare male, è importante ridere.
Alcune volte, alle cinque, arrivavano e si portavano via un po’ di sangue.
Una volta, una infermiera, ha puntato la siringa nel braccio come un compasso e l’ha girata. Non trovava la vena, diceva. Forse aveva ragione, che era l’ultimo prelievo prima di uscire.
È che ogni mattina speravo di uscire.
Dopo la prima notte, per esempio. Ma mi dissero che sarei rimasto ancora un giorno in più.
E il giorno dopo, che sarei rimasto un giorno in più, ma che sicuramente sarei uscito al terzo.
Poi però le cose sono peggiorate e quindi sono rimasto dentro una settimana per fare una mega flebo di un mega antibiotico e un mega cortisone.
E poi stavo meglio e un po’ camminavo, appoggiato al corrimano del corridoio.
Poco.
E quindi mi dissero che sarei uscito, al decimo giorno.
E la mattina alle cinque stavo bene, per modo di dire, perché al solito facevo fatica anche ad andare a fare la pipì, quei due metri e mezzo lì.
Poi alle dieci avevo tipo quaranta di febbre e nessuno capiva bene cosa potesse essere successo.
Quindi mi fanno un po’ di esami aggiuntivi, come se non me ne avessero ancora fatti abbastanza, e salta fuori che potrei avere una leucemia. O forse un’infezione al sangue. Stessa roba.
Scoppio a piangere.
Però nel pomeriggio mi hanno detto che non era leucemia, ma che comunque mi tenevano in ospedale un altro po’.
E così è stato.

Il cellulare è spento e ogni comunicazione con i social network interrotta. E con gli amici.
Mia madre è accanto ed è preoccupata.
Sono da solo, in quel letto e non mi muovo, questo è.
Poi mi dicono che leucemia non è, ma è un’infezione e quindi mi riattaccano altre flebo di mega antibiotico e mega vitamine, che nel frattempo ho perso 15kg ed ecco, poi dopo altri 15 giorni esco.
Mi vesto di tutto punto, con una bella camicia bianca con le maniche fatte su, come piace a me.
Dalla camera 23 all’auto di mio padre ci saranno duecento metri, ma arrivo stremato.
Dalla macchina di mio padre al letto di casa mia, è una tragedia.
Sono fuori dall’ospedale, ma in piedi non ci sto.

Passa un mese così ancora.
Al posto delle ginocchia ho dei cocomeri e la stessa identica mobilità.
Perché l’ho raccontata facile, ma tutto è cominciato il 7 luglio e non è ancora finito a dire il vero. Ma i due mesi successivi al 7 luglio, beh, quelli sono stati piuttosto intensi.
No.
Quelli sono stati.
Sono stati importanti e hanno cambiato tutto.
Il mio modo di rapportarmi con le persone.
E prima di tutto con me.
Con la mia vita. E le aspettative. E i miei genitori.
Ma no.
La malattia rende egoisti.
È come il consuntivo di fine anno, quando su facebook si scrivono i buoni propositi puntualmente disattesi. È uguale, solo che non si sa se si torna in piedi.
E quindi forse i buoni proposti te li ricordi un po’ meglio.

E poi c’era Londra.
Che ci pensavo e pensavo che, eccomi qui, sdraiato senza potermi muovere, a tutte le volte che ho detto che a Londra ci sarei andato a vivere e non ci ho mai provato?
Patetico, mi ripetevo.
Ogni minuto.
Che non era mica detto che sarei tornato in piedi.
E improvvisamente Cremona, tanto amata, divenne un incubo in cui vivere.
Senza amore.
Senza vita.
Senza gambe.

Questo è successo.
E senza questo, non sarebbe successa Londra.
Non avrei avuto un motivo vero per andarmene via.
Perché non stavo bene a Cremona, ma non stavo nemmeno abbastanza male per andarmene.

Solo a quel punto, invece, consapevole banalmente che la vita può cambiare improvvisamente, ho deciso di impegnarmi quotidianamente per migliorarla, la mia vita.
Il motore che mi ha spinto è stata la disperazione, in un certo senso.
E, in tutto ciò, non posso che esserle molto grato.

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