La sindrome del giardino del vicino
Vai a teatro.
Sei in coda.
Davanti, un uomo, pelato ma con i capelli lunghi, con una giacca di velluto nera che puzza di naftalina e un dolcevita nero che sa di Valle degli Orti.
Dietro, una coppia annoiata di cinquantenni con bambino, biglietti omaggio di qualche banca e/o fondazione e/o associazione culturale.
Davanti, l’uomo gesticola animatamente con la compagna, capelli lunghi, crespi, grigi, unti di olio motore.
La coppia e’ cosi’ apatica che si muove meccanicamente, occhi vuoti, verso la cassa. Incurante dell’ingombro della tua persona.
Ogni movimento dell’uomo pelato e’ una tempesta di neve. Etti di forfora che crollano sulle sue spalle, nell’aria, microparticelle di pelle morta che tentano di insinuarsi nella tua bocca, nel naso, negli occhi, nei pori, aliene otturazioni epidermiche.
La coppia avanza, imponente. Il bambino gioca, ti urta. La donna dai capelli crespi ride a crepapelle ed e’ in amore con il pelato, devono essere un’ufficiosa coppia di amici dalla passione comune. Lei non perde il contatto visivo con il pelato, e si accarezza ossessivamente i capelli, spostando le ciocche unte da sopra l’orecchio, che cadono drammaticamente con tonfo sonoro.
La coppia avanza, ti spingono, ti giri per reclamare, il bambino gioca, ti urta e tu finisci contro la schiena imbiancata dell’uomo pelato. Polvere di stelle, come quando giri le bolle di vetro con la neve dentro, che vortica attorno all’ignaro e immobile pupazzo di neve al centro della scena. L’uomo pelato si gira, sorride, denti marroni e grigi, chiedi scusa, lui dice si figuri e svieni istantaneamente nel fango del suo alito.
La donna crespa pratica una respirazione bocca a bocca che ti da il colpo di grazia definitivo.
Ti risvegli nel tuo posto in platea.
Tutto e’ perfetto, mancano cinque minuti all’inizio. Le maschere aiutano gli ultimi a trovare sistemazione, sottile brusio di sottofondo, conciliante.
Ti rifai, riassapori la vita. Le luci calano. Il brusio si disfa. Inforchi gli occhiali per goderti la pièce da tanto agognata.
E nell’istante di buio in cui sbatti le palpebre e infili le lenti, si materializzano nell’ordine:
1. un giocatore di pallacanestro, davanti;
2. un universitario scostante, alla tua destra;
3. un affabile anziano con spessi occhiali, alla tua sinistra;
4. una coppia sui trenta, dietro.
Nero in sala.
Silenzio.
Sta per partire l’overture.
Inizio.
Sincronicamente;
– il ginocchio dell’universitario scostante parte con un movimento periodico, sussultorio, nevrotico, che induce il tuo sedile al massaggio lombare;
– il cellulare dell’anziano signore inizia a suonare, perso in qualche anfratto del pesante paletot adagiato sulle gambe;
– la coppia starnuta, prima lui, poi lei, bagnandoti la nuca;
– il giocatore di pallacanestro si issa per bene sul sedile, perche’ di fronte a lui si e’ seduto un pivot del Baracca Lugo, quella cazzo di squadra che non tollera.
Mentre la gambetta impazzita dell’universitario ti scuote, il simpatico vecchietto ti prende per un braccio e sottovoce ti urla “SI SPENGONO I TELEFONINI EH!”, ma e’ il suo, gli dici, “SILENZIO!” risponde e gli prendi il paletot a pied de poule, infili la mano nella tasca lui urla “AL LADRO!” prendi il telefonino, leggi sul display “Mamma”, pensi quanti cazzo di anni la madre di questo vecchio bastardo, sorridi di circostanza, stacchi la batteria, tutto torna in silenzio, il giocatore di basket si gira, dice sssshhh, i due dietro tossiscono l’inno inglese, l’universitario dice VAFFANCULO con l’alfabeto morse della gamba e in tutta la sala c’e’ un mormorio di disapprovazione.
Tu, cattivo.
Tu molto cattivo.
Due note ancora e dietro sussultano una scarica di tosse, lei apre la borsetta stando attenta a non fare rumore, ci infila le mani dentro e fruscio di carte e cartacce, probabilmente una colonia di brandelli di alluminio, di plastica, di plexiglass, di rame, biglie, sonagli, raganelle e nacchere, tutti all’unisono, perche’ lei vuole trovare un minchia di Benagol.
Lo trova dopo 157 secondi netti, di assordante e incessante tramestio manipolatorio, silenzio di attesa per ben tre secondi e proprio durante la prima battuta della sospirata pièce, lei pigia sul Benagol in un fragoroso SCLANC.
Starnuto e tosse.
COFF.
Benagol in bocca, cozza contro i denti.
CLENKCLENK.
Il simpatico nonno, sempre attento al tono di voce, “MA QUELLA E’ GIULIETTA?” e tu gli dici “ehm, no, questo e’ Beckett, sa?”, il cestista si irrita, si gira, ti prende per il bavero e dice “adesso basta” con una diplomazia paragonabile a quella di Ivan Drago.
L’universitario saltellante sbuffa la sua noia. Ci dovra’ scrivere una tesina su sta roba.
Estrae un iPhone e per il resto del tempo sara’ un gran pizzicare, pigiare, scorrere, scivolare, menare lo schermo estremamente piatto, estremamente luminoso.
Ti guardi attorno.
Sospiri.
Per i rimanenti 120 minuti sara’ una battaglia con la pazienza.
Nell’inferno del pubblico pagante.
E poi ti accorgi. Una brezza leggera. Giri il capo. L’ineluttabile e’ qui.
Che il pubblico di appena due posti piu’ in la’, tutt’attorno, a 360 gradi, e’ costituito da filosofi, critici letterari, bellissime donne single in attesa di un incontro, rockstar dal cuore d’oro, gentili massoni, mecenati desiderosi di finanziare i tuoi sogni e una compagnia di sordomuti, perdipiu’ affetti da nanismo.
Insomma, le persone migliori sono sempre la’, due posti piu’ lontano.
Ma tu no. Tu ci sei in mezzo.
Nell’inferno epocale.
Il punto e’ che non solo il vicino ha il giardino piu’ verde, e’ che tu vivi in un monolocale nemmeno a norma.
Forse e’ il caso di chiamare Tecnocasa.